Boston, gli errori della stampa e la bomba del web

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Vi svegliate dopo una nottata difficile, aprite il giornale e trovate la vostra faccia in prima pagina. Nei panni presunto del bombarolo. Non sono i postumi di un incubo, ma quanto realmente accaduto a due cittadini americani, tra cui uno studente di 17 anni, il giorno dopo il tragico attentato alla Maratona di Boston.

Giovedì, sulla prima pagina del New York Post, campeggiava una foto con due persone ben visibili: “Bag Men: Feds seek these two pictured at Boston Marathon”, recitava il titolo: “Uomini della borsa: i federali cercano queste due persone fotografate alla Maratona di Boston”. L’unico – piccolo – problema della faccenda è che entrambi sono poi risultati assolutamente estranei alla vicenda.

Quanto conta che il giornale non abbia detto esplicitamente che i due personaggi raffigurati nell’immagine fossero in qualche modo implicati nella vicenda? Quanto importa, ancora, che – come ha spiegato poi il caporedattore Col Allan – “l’immagine è stata inviata ieri pomeriggio dalle forze dell’ordine che cercavano informazioni su questi uomini, come il nostro resoconto ha riferito”? Conta, forse, in termini legali. Ma resta ancora da capire come mai proprio quella foto, tra le tante, sia finita sul giornale. E quindi sui siti di tutto il mondo.

Difficile dare risposte. Ma alcune considerazioni generali, considerando l’accaduto, mi vengono spontanee. La prima che nell’epoca del digitale l’errore giusto – quello che risulta accattivante e verosimile – può viralizzarsi velocemente e assumere dimensioni spaventose. L’altra è che di errori simili – perché di certo nello specifico non possiamo parlare di una campagna alla “Sbatti il mostro in prima pagina” – ne capitano molti. Tanto alla blasonata stampa americana, quanto alla vituperata stampa italica. E dunque il problema, il bug, é sistemico.

Basti ricordare, tornando ai problemi nostri, la bomba di Brindisi dello scorso 19 maggio. Con Sandro Ruotolo che informava i suoi 41mila follower di Twitter – i numeri sono quelli delle vendite in edicola dei più grandi quotidiani di provincia – sugli sviluppi investigativi, in tempo reale e con grande dovizia di dettagli (“Lo stragista aziona il telecomando con la mano sinistra. Dalla foto sembrerebbe colpito da un ictus sul lato destro”, “In questura viene sentita una persona”, “Il cognome sarebbe Strada. Il sospettato si chiamerebbe Claudio. Il fratello che sarebbe in questura M.”, e ancora “Quartiere popolare. Lui mano offesa. Vive con il fratello e una signora. All’ultimo piano di un palazzo. Edilizia popolare”). Peccato che il signor Strada fosse anche in questo caso innocente.

Un po’ di prudenza in più e l’accortezza di evitare nomi non avrebbero guastato. Ma non aveva, forse, Ruotolo il pieno diritto di fare cronaca su un fatto tanto significativo, dando conto di come si stavano sviluppando le indagini? E ancora. Non aveva il New York Post il diritto di pubblicare quella foto scattata in un luogo pubblico e il dovere morale di dare un contributo alle indagini?

In Italia il diritto di cronaca si può esercitare oltre qualsiasi diritto personale (o quasi) a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Tradotto: quando si dà una notizia è fondamentale che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti (pertinenza) e che gli stessi siano esposti in maniera obiettiva e senza esagerazioni (continenza). Tornando a Boston: cosa c’è di più obiettivo di una foto? O – come ben sanno i pubblicitari – esiste qualcosa di più immediato e fuorviante di una foto? Potremmo discuterne per ore. Giorni. O mesi. Ma non c’è nulla da fare. Nell’impossibilità di stabilire criteri universali, un solo criterio – ritengo – fa la differenza fra una buona e una cattiva notizia: la verità. Ed è ovviamente il più difficile da applicare.

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