Ho letto un articolo pubblicato il 10 aprile sul sito della “World association of newspapers and news publishers”, una sorta di federazione mondiale degli editori che raccoglie 18mila pubblicazioni e 15mila siti on line in più di 120 Paesi. Riprendendo una questione che ho affrontato in questo post, devo ammettere che trovo la riflessione illuminante sul futuro dell’editoria (on line).
La tesi è affascinante (magari se ne trovassero di simili sul sito della Fieg…). Nell’era di Google basta una semplice ricerca per trovare centinaia di articoli gratuiti sullo stesso argomento. Perché un lettore dovrebbe pagare per leggerne un altro? Potremmo abbozzare qualche risposta, ma sarebbero tutte insoddisfacenti. Tutte tranne una, forse: la firma. La firma è una di quelle cose un po’ fuori moda tra i giornalisti italiani, ma è uno dei pochi motivi sensati per cui oggi il lettore è disposto a pagare.
“Compriamo il New York Times tanto per Tom Friedman e Nick Kristof quanto per il fatto che è il New York Times”, si legge nell’articolo. Lo stesso discorso non vale forse in Italia per il Corriere o per il Fatto Quotidiano? Esistono giornalisti che hanno praticamente gli stessi follower su Twitter dei rispettivi giornali. Come Caitlin Moran del Times, seguita da poche centinaia di persone in meno della realtà per cui scrive (393mila), scrive ancora l’anonimo autore per sostenere la sua tesi. Ma vorrei far notare che il nostro Beppe Severgnini di follower ne ha già 386mila contro i 274mila del Corriere della Sera. Insomma: “Now individual journalists’ brands rival that of their own publications”. I brand individuali dei giornalisti ormai competono con le loro pubblicazioni che li ospitano.
Nel mondo, anzi in Europa, c’è chi l’ha già capito. Da febbraio, ad esempio, la piattaforma olandese Heij’s De Nieuwe Pers (“La nuova stampa”) permette ai giornalisti freelance di pubblicare le proprie notizie e ai lettori fornisce due opzioni: abbonarsi agli articoli di un singolo giornalista (1,79 euro al mese) o all’intera piattaforma (4,49 al mese). Ebbene: il 40 per cento ha scelto la prima opzione. E anche per questo – spiega Alan Mutter, docente di Giornalismo alla University of California – “i giornalisti non dovrebbero smettere di accrescere il proprio brand personale, che è oggi un un fattore chiave per il successo”. Benvenuti nel futuro.