Lavorare un tanto al click nell’epoca del giornalismo 2.0

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Il giornalista non è più un lavoro di moda. E a dimostrarlo sono anche fattori oggettivi, a partire dal valore che il mercato attribuisce a un articolo. O a un insieme di parole sgrammaticate e inutili che l’autore vorrebbe definire articolo. Lo spunto per questa riflessione me l’ha dato un post – molto discusso – pubblicato qualche giorno fa sul gruppo “Giornalisti italiani su Facebook”, che gestisco da qualche anno: una tribuna che ha raccolto in un paio d’anni oltre 11mila iscritti.

Un’offerta di “lavoro” – molto discussa e contestata – di tale Francesco, mi ha aperto gli occhi su un mondo che ancora non conoscevo. Ero fermo ai tanti aspiranti giornalisti che lavoravano gratis per la gloria o per il tesserino. E ai collaboratori pagati “tre euro al pezzo” da un noto gruppo editoriale in Veneto (ormai sono diventati una leggenda della Rete e della professione). Ma questa, evidentemente, è preistoria.

La nuova tendenza è un’altra. Prendiamo ad esempio il sito Italiani Sveglia, testata non registrata in tribunale che raccoglie una serie di articoli pagati tramite un sistema di affiliazione. Qui i giornalisti che inviano un articolo alla piattaforma vengono pagati a clic sulle inserzioni pubblicitarie: il 60 per cento degli (eventuali) introiti pubblicitari vanno all’autore, il 40 per cento al sito. Facile obiettare che ottenere un clic, anche a fronte di un numero discreto di visualizzazioni, è molto più complicato di quello che sembra. Ma secondo il promotore “chi è nel settore sa bene che un articolo visualizzato 1000 volte da utenti singoli avrà un minimo di 250-300 click sulla pubblicità”. Che moltiplicati per un valore dai 20 ai 50 centesimi per clic farebbero circa 60 euro: 24 alla piattaforma e 36 (ovviamente lordi) al giornalista.

Diciamolo sinceramente: la non sarebbe affatto scandalosa se rapportata a quanto pagano i quotidiani italiani. Il problema è che raggiungere quella cifra è tutt’altro che facile.

A me, francamente, una percentuale simile (il 30 per cento delle visualizzazioni convertite in click sulla pubblicità) sembra fuori dal mondo. L’esperienza mi dice che ottenere mille visualizzazioni su un sito affermato non è facile, figuriamoci su un blog sconosciuto. E, anche se fosse, la percentuale di clic sulle pubblicità è più vicina al 3 per cento che al 30, come dichiara il gestore del sito. Dunque? Dunque il guadagno medio di un articolo pagato con sistema pay per clic (a meno di essere dei grandissimi promoter virtuali di se stessi) si aggira su un paio di euro, da dividere ovviamente con la piattaforma. Un affarone.

“Molti imprenditori sono partiti dal nulla, la Volkswagen non pagò i suoi dipendenti per 6 mesi, nessuno si lamentò e diventò una delle più importanti case automobilistiche”, scrive l’admin del sito sul gruppo di Facebook rispondendo alle critiche di un utente. “Tu sei contro i lavoro”, incalza, “far imprenditoria significa sacrificarsi, sbattersi a destra e sinistra ed usare le unghie ed i denti, (…) il problema che devasta l’Italia è propio questo: aspettare che ci venga dato un lavoro senza far tentativi e rischiare”.
 
Messo anche che sia vero che la Volkswagen non abbia pagato i dipendenti per sei mesi, e qualche dubbio ce l’ho, farei notare a Francesco come inizia la voce di Wikipedia relativa: “La Volkswagen, vocabolo che in tedesco significa letteralmente vettura del popolo, nacque sotto la dittatura nazista di Adolf Hitler, nel 1937, per suo volere”. Forse il suo non è l’esempio giusto. Tanto meno per un aspirante giornalista.

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