Fare il giornalista nell’era del web 2.0 e dei social è una sfida. La sfida – immensa per chi viene dal passato ed è nato nel Novecento – è quella di non provare a fermare il vento con le mani, adeguandosi a una società che cambia a ritmo vertiginoso. Che è già cambiata.
Oggi i lettori trovano le notizie in tempo reale, e gratis, sul web: dunque i giornali – che arrivano con un giorno di ritardo, con il costoso fardello della carta – devono reinventarsi un ruolo, un senso. Oggi quasi tutti possiedono uno smartphone e sono cronisti (citizen journalism). Con una forza impareggiabile, perché essendo ovunque i nuovi “giornalisti” arrivano dove gli inviati dei media tradizionali non ci sono nemmeno. Oggi i politici che vogliono abilmente far scappare un’indiscrezione o fare una dichiarazione non telefonano più al giornalista di fiducia: semplicemente lo scrivono su Facebook o su Twitter.
L’elenco di ciò che non è già più uguale a “oggi” sarebbe lunghissimo. Ma ciò non significa chela figura del giornalismo non abbia più un senso. Perché nella rete diventa essenziale la capacità di selezionare. E non tutti hanno gli strumenti per farlo. Dunque serve ancora qualcuno che raccolga le notizie, le verifichi, le certifichi con una firma e proponga una gerarchia al popolo della rete. Diventa essenziale, per un giornalista, padroneggiare strumenti (come quelli per l’editing fotografico e video) e media (a partire dai social) diversi. Diventa essenziale saper comunicare e confrontarsi con il “pubblico”. Non un grazioso optional per essere politically correct.
Da qui, anche da qui, passa il presente dei giornalisti. E chi non l’ha capito è già passato.